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IMMAGINE: ADOLF HITLER PASSEGGIA CON IL DIPLOMATICO TEDESCO WALTHER HEWEL NELLE ALPI DI BERCHTESGADEN, NEL 1942. FOTO DI WALTER FRENTZ/WW2GALLERY 21.1.2021

La trappola dell’ecofascismo

Appunti sul rapporto ingannevole e pericoloso tra ideologie autoritarie e preoccupazioni ambientaliste.

L’estate del 2019 verrà ricordata per due attacchi terroristici: gli attentati di stampo islamofobo a Christchurch, in Nuova Zelanda, 50 morti, e la strage ispanofoba di El Paso, in Texas, 22 morti. Avevano un elemento comune evidente a tutti: gli autori erano suprematisti bianchi. Ma c’era anche dell’altro: negli scritti ritrovati dopo gli attacchi, gli attentatori parlavano, tra le altre cose, di ambiente. La stampa cominciò in quei giorni a usare la parola ecofascismo per descrivere l’ideologia che li muoveva. Il manifesto The Great Replacement, la grande sostituzione, diffuso nell’estate del 2019 da Brenton Tarrant, autore della strage di Christchurch, recitava: 

Non esiste conservatorismo senza natura, non c’è nazionalismo senza ambientalismo, l’ambiente naturale della nostra terra ci ha formato tanto quanto noi stessi abbiamo fatto con esso. Siamo nati dalle nostre terre e la nostra stessa cultura è stata plasmata da esse. La protezione e la preservazione di queste terre ha la stessa importanza della protezione e preservazione dei nostri ideali e del nostro credo.

Qualcuno si ricordò così del 2017, quando durante i disordini seguiti al raduno razzista dello Unite the Right Rally, a Charlottesville, in Virginia, venne assassinata Heather Heyer, manifestante di una contro-protesta anti-suprematista. Anche in quei giorni erano spuntate dichiarazioni che univano tutela ambientale ed estrema destra. “Abbiamo la possibilità di diventare gli amministratori della natura, o i suoi distruttori” aveva scritto Richard Spencer, esponente della cosiddetta alt-right, nel manifesto ideato per l’occasione.

Con l’arrivo della pandemia si è tornato a parlare di ecofascismo. Durante i primi lockdown totali, sui social sono diventati virali foto e video (a volte artefatti) della natura che guariva e si riprendeva il pianeta, acque dei fiumi che tornavano limpide e animali che popolavano le strade deserte mentre buona parte degli esseri umani era confinata in casa. “Noi siamo il virus”, era la didascalia di queste foto, un meme diventato quasi subito parodia di sé stesso. Eppure, nonostante fosse nato con intenzioni completamente diverse, in molti hanno notato che, a volerlo prendere sul serio, non esiste slogan migliore di “Noi siamo il virus” per riassumere la violenza dell’ecofascismo e la sua misantropia. La narrazione della natura come soggetto puro che, una volta separato dall’uomo, risorge, è una narrazione feticizzata e pericolosa, proprio perché cancella le componenti sociali, culturali ed economiche. E, come ha scritto Grist, importante rivista statunitense di orientamento ambientalista: “la verità più insidiosa (e scomoda) è che inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista”. 

Ma che cosa significa quindi ecofascismo? Non è semplice rispondere. Come con il fascismo eterno descritto da Umberto Eco, anche l’ecofascismo non sembra avere una semplice e univoca definizione, o una caratteristica esclusiva che lo possa definire. Dire cos’è l’ecofascismo non è una questione di dizionari, e oggi diverse fonti, anche diametralmente opposte, sembrano ancora servirsi di questa parola piuttosto liberamente. Per esempio James Delingopole, editor della testata di estrema destra Breitbart, negazionista climatico e scientifico (a inizio della pandemia ha cercato di vendere una cura, da lui “collaudata”, ai suoi seguaci), nel 2013  ha scritto un intero libro per denunciare l’ambientalismo mainstreamdefinendolo, appunto, ecofascista.

Allo stesso tempo, nell’opposto spettro politico, alcuni ambientalisti hanno parlato di ecofascismo a proposito delle dichiarazioni della primatologa Jane Goodall, intervenuta al Forum economico mondiale del 2019. Goodall aveva detto che gran parte dei problemi ambientali erano dovuti all’aumento della popolazione mondiale e che quindi molti di questi non esisterebbero se il numero di esseri umani sul pianeta fosse quello di 500 anni fa. Per i critici affermazioni come queste rivelano un ingenuo malthusianesimo e, soprattutto, sollevano inevitabilmente domande pericolose: se siamo troppi sul pianeta, chi sarebbe in più? Se consideriamo la distribuzione della natalità, dovremmo concludere che sono di troppo proprio i paesi più poveri, di cui l’Occidente ha sempre sfruttato le risorse. Sono loro a dover essere oggi “contenuti”. Non è difficile immaginare le implicazioni di questo tipo di ragionamenti, ed è per questo che anche le parole di Goodall sono state tacciate di ecofascismo, e quindi criticate anche e soprattutto dal mondo ambientalista. Lo stesso trattamento che è stato riservato alla filosofa Donna Haraway, colpevole di dichiarazioni non dissimili sulla riduzione della natalità, nonostante il suo appello fosse in realtà costruito e argomentato in chiave femminista, antirazzista e anticolonialista. Tuttavia, come ha scritto la professoressa Banu Subramaniam, anche da queste prospettive, il controllo della popolazione non può essere separato dalla sua dimensione coercitiva e dal suo bagaglio razzista e coloniale, ancora attuale.

Inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista, ma una definizione semplice e univoca di ecofascismo non sembra esistere.

A queste difficoltà “tassonomiche” aggiungiamo il fatto che sono in pochi a rivendicare apertamente il termine ecofascismo per descrivere la propria ideologia, o una sua parte. “Un tentativo di definizione di ecofascismo potrebbe essere questo: l’ideologia che affronta i problemi ecologici senza tenere conto dei problemi sociali di tutte e tutti, specialmente dei più deboli. E le soluzioni a questi problemi, o presunte tali, sono quindi autoritarie”. Parla Marco Armiero direttore dello Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology (Svezia). Come storico dell’ambiente Armiero si è occupato anche degli aspetti “verdi” del fascismo italiano. Una linea di ricerca già esplorata alla fine del secolo scorso a proposito della Germania nazista. 

Eccoci allora di fronte a un ecofascismo che potremmo definire “storico”. Ma possiamo trovare un filo rosso che lega l’ecologismo attuale, o parti di esso, a quello studiato nei due regimi? Ci dovremmo chiedere, come fanno alcuni, se non sia l’ecologismo stesso un prodotto tossico di quel passato? In realtà, mi spiega Armiero, non è così semplice. Per usare un noto paradosso, il fatto che Hitler fosse o non fosse vegetariano e per quali motivi, non ci è di nessuna utilità per capire il vegetarianesimo attuale e le sue motivazioni.

Camicie nere, retoriche verdi
I regimi autoritari – racconta Armiero – mobilizzano tutto quello che è intorno a loro, quindi anche le spinte che definiremmo ecologiste. Possiamo a buon diritto parlare di ecofascismo “storico”, ma sarebbe un gravissimo errore credere che nazisti e fascisti avessero una coscienza ecologica così spiccata. La tesi delle radici naziste dell’ecologismo attuale è stata avanzata dalla storica Anna Bramwell alla fine dello scorso secolo. Ma da allora questa interpretazione è stata molto criticata, e per molte ragioni. Per esempio, la Germania aveva già una certa tradizione di protezione del paesaggio, che precedeva anche di secoli l’ascesa del nazionalsocialismo. Che ha, è vero, varato delle leggi apparentemente avanzate in merito, ma lo ha fatto nella misura in cui alimentava il mito propagandistico del sangue e del suolo. E alla fine, nonostante le tante parole di ammirazione per la natura e per i paesaggi bucolici, la Germania nazista era una macchina industriale, al servizio della guerra. Quando l’agognato conflitto arrivò, fu chiaro che non c’era posto per l’ambiente: tra suolo e sangue, era il secondo a contare davvero. Potremmo azzardare qui un paragone col cosiddetto nazismo esoterico, un aspetto che in molti prodotti di fiction (e non solo) è stato presentato come una colonna portante del Terzo Reich nonostante per gli storici i nazisti non fossero affatto ossessionati dall’occulto, come spesso ci piace pensare. Questo valeva forse solo per Himmler e pochi altri, mentre la nozione che il Terzo Reich avesse chissà quale legame con il magico è stata del tutto smentita dai documenti.

In Italia possiamo fare un discorso simile riguardo al rapporto tra tutela ambientale e fascismo. Anche la nostra dittatura sanguinaria, complice del Führer, è intervenuta sul paesaggio in un modo che, in alcuni casi, almeno superficialmente, potremmo definire ecologista. In Green Rhetoric in Blackshirts: Italian Fascism and the Environment, Armiero e il collega Wilko Graf von Hardenberg (del Max Planck Institute for the History of Science) spiegano che anche i fascisti avevano la loro versione del mito del sangue e del suolo, modellata naturalmente sulle passate glorie di Roma. La natura doveva sì essere protetta, ma anche addomesticata, cioè sfruttata per alimentare il regime e la sua propaganda. Non solo con le celebri bonifiche, una delle “cose buone” che ai revisionisti piace ricordare. Venivano anche imposte grandi infrastrutture idroelettriche e, accanto, interventi di riforestazione il cui vero scopo, però, non era altro che proteggere dall’erosione i lucrosi invasi (e le riforestazioni erano sovvenzionate dalle stesse società idroelettriche). 

Si può parlare di elementi di ecofascismo nell’ideologia nazista, ma sarebbe un gravissimo errore credere che il regime avessero una coscienza ecologica così spiccata.

Dopo la Marcia su Roma il fascismo istituì anche dei parchi nazionali, come quello d’Abruzzo, di cui Mussolini appena insediato si intestò il successo. Peccato che, a ben vedere, il lavoro per proteggere quell’area, e gli orsi che ci abitavano, era cominciato ben prima, in epoca liberale. In altri parchi poi il regime continuò a costruire dighe, con gli stessi metodi. Nessuno di questi interventi però teneva in gran conto le relazioni ecologiche, e nemmeno di quelle sociali: il paesaggio doveva essere un’espressione del potere fascista, tanto sulla natura, quanto sulle persone. Per esempio, il fascismo cercò di proteggere i nuovi boschi e il suolo dichiarando guerra all’allevamento di capre, ma quegli animali servivano a chi sulle montagne ci viveva: anche gli abitanti dovevano essere addomesticati.

Che cosa è sopravvissuto
Ricondurre la nascita dell’ecologismo moderno al nazifascismo è quindi sbagliato a più livelli. Da un lato, l’ambiente è una questione politica da ben prima del Terzo Reich, o della Marcia su Roma. Nella storia umana sono esistite leggi a tutela dell’ambiente in moltissime civiltà, e anche prendendo in considerazione il solo Ventesimo secolo, non è possibile appiattire la discussione al presunto contributo di questi regimi. In secondo luogo, è dimostrabile come quel tipo di ecologismo, se davvero così si può chiamare, fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina del consenso e della repressione. 

La domanda però rimane: quel primo ecofascismo ha comunque lasciato qualche pericolosa eredità di cui oggi dovremmo preoccuparci? L’ecologismo può diventare un cavallo di Troia attraverso il quale normalizzare ideologie genocide? Nel saggio di Janet Biehl e Peter Staudenmaier Ecofascismo. Lezioni dall’esperienza tedesca (1995), la tesi degli autori è proprio questa. A cinquant’anni dalla fine della guerra, qualche residuo di quella ideologia strisciava ancora nei discorsi di alcuni partiti e movimenti verdi in Germania, che in tempi non sospetti proponevano già un adagio che sarebbe diventato noto: non siamo né di destra, né di sinistra, siamo davanti. Uno slogan che gli autori del saggio riconoscono come storicamente ingenuo e politicamente fatale, dietro al quale si nascondeva (e spesso si nasconde ancora) l’estrema destra. Inquietanti simili sfumature si potevano trovare nello stesso periodo anche nei discorsi del Front National, in Francia, che provarono a porre il fenomeno migratorio all’interno della cornice della sostenibilità ambientale: non possiamo accoglierli tutti. 

È possibile allora tracciare un filo rosso che parta, in maniera inequivocabile, da questi esempi a cavallo degli anni Novanta fino ai casi più recenti? Sappiamo del resto che oggi alcune comunità di suprematisti bianchi si sono effettivamente avvicinate al discorso ambientale, e che a volte sono davvero convinte tanto della necessità di mantenere pura la razza quanto dell’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Per esempio, l’ormai noto “Sciamano di QAnon”, Jake Angeli, al secolo Jacob Anthony Chansley, il più fotografato degli invasori del Congresso USA lo scorso 6 gennaio, aveva partecipato anche ad alcune marce per il clima. Vale la pena notare che questa rivelazione è stata immediatamente impugnata da Michael Shellenberger, influencer del negazionismo climatico cosiddetto “morbido”, che accetta il riscaldamento globale antropogenico ma ne minimizza i pericoli. Nei suoi tweet Shellenberger, vicino ai Repubblicani, ha ventilato (senza ironia) l’ipotesi che Jake Angeli fosse un attore pagato. La giornalista scientifica Emily Atking ha puntualizzato: “il tipo con le corna non è un attivista climatico, è un ecofascista”.

Oggi nuovi gruppi di estrema destra rivendicano un interesse “ecologista”, ma l’ecofascismo rimane una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale.

Ma possiamo davvero chiamare ecofascismo l’ideologia delle nuove destre, in USA e in Europa? Secondo Armiero è di nuovo importante contestualizzare la loro reale portata. Nessuno dovrebbe aver difficoltà a riconoscere l’ideologia tossica di questi movimenti, e della loro pericolosità abbiamo esempi concreti. “Ma dobbiamo considerare che se Casapound, per esempio, ha un gruppo ‘ecologista’ chiamato ‘Foresta che avanza’, non è certo per questo che è nota. Perché dovremmo preoccuparci dei vari paraventi ambientalisti, quando è così evidente che sono accessori, e per altro sconosciuti ai più? La coscienza ambientale, vera o presunta, nuova o ritrovata, di questo tipo di gruppi è insomma abbastanza irrilevante di fronte a tutto il resto”. L’opinione dello storico è simile a quella della filosofa Serenella Iovino, professoressa di Italian Studies and Environmental Humanities all’Università della North Carolina a Chapel Hill, che via mail mi scrive: “Per quanto mi risulta, l’ecofascismo è una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale, legata a temi come il credo nazista del Blut und Boden e a un’interpretazione molto ‘selettiva’ ed ‘eclettica’ (per mancanza di termini migliori) di alcune idee di Heidegger e di Arne Naess (fondatore della Deep Ecology). Non sono a conoscenza di nuclei ‘ecofascisti’ in Italia (di solito, anzi, i neofascisti nostrani, specie nelle loro simpatie militaristiche, sono abbastanza alieni a preoccupazioni ecologiche).”

Non si può nemmeno dire che sia una propaganda efficace, a conti fatti. Se guardiamo ai grandi movimenti ambientalisti, o agli stessi partiti “verdi” che ne dovrebbero esserne espressione, il moderno ecologismo è tradizionalmente portato avanti (nel bene e nel male) da sinistra, dice Armiero. Anche quando i Verdi lavorano in parlamento con le destre, come è accaduto in Svezia, non si tratta di destre nostalgiche, o autoritarie. “Sarebbe un grave errore dare a queste realtà un peso maggiore di quello che meritano”.

Dall’ecofascismo all’ecoautoritarismoTorniamo allora alla definizione provvisoria di Armiero. L’ecofascismo è quando si affrontano i problemi ecologici in maniera autoritaria e senza considerare i problemi sociali di tutti e tutte. In fondo questa definizione, a ben vedere, non ha bisogno di ancorarsi a un preciso precedente storico. Nonostante il nome, l’ecofascismo non necessiterebbe così di trovare le vere e proprie camicie nere che lo esercitano. Forse questo è anche il motivo per cui la parola è usata in maniera incoerente, più per colpire un avversario che per definirlo politicamente.

Proviamo allora a introdurre un concetto che è spesso del tutto sovrapponibile, ma forse suona meno problematico da usare: ecoautoritarismo. Uno degli esempi più noti riguarda la conservazione della natura negli Stati Uniti. I grandi parchi nazionali americani sono un vanto della nazione, e sono stati un esempio per altri paesi, Italia inclusa. Raramente però ricordiamo che quando cominciarono a essere istituiti, a metà dell’Ottocento, le popolazioni indigene eventualmente presenti non facevano assolutamente parte del disegno. Teddy Roosevelt fece della conservazione una priorità della sua presidenza (1901 – 1909), ma è anche passato alla storia per aver detto Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non dovrei indagare troppo a fondo sul decimo”. Come ha scritto di recente Prakash Kashwan su The Conversation, oltre un secolo dopo Roosevelt la conservazione della natura, che a livello mondiale è in genere guidata da anglo-sassoni, ha ancora enormi problemi a riconoscere il ruolo delle popolazioni indigene. A questo proposito, basterebbe ricordare lo scandalo degli abusi commessi dalle milizie finanziate dal WWF per proteggere i parchi in diverse zone del mondo: dopo le denunce di Survival International relative alla persecuzione di pigmei Baka in Congo, un’inchiesta di Buzzfeed ha portato alla luce altri casi, offrendo prove che le comunità indigene sono ancora oggi sacrificate nel nome della conservazione. 

Del resto, come nota Kashwan, gli indigeni nei documentari sulla natura spesso sono invisibili, nella migliore delle ipotesi. Questo rimosso non risparmia nemmeno quelli in cui sono coinvolti mostri sacri della divulgazione, come David Attenborough. Nel documentario Wild Karnataka (2019), da lui commentato, è stata oscurata, dalla narrazione, la presenza delle persone che chiamano casa quelle foreste e che hanno contribuito a creare e proteggere quella natura che vediamo nelle immagini mozzafiato HD del documentario. È la retorica della wilderness, intesa nella sua forma più tradizionale. L’idea ottocentesca ed eurocentrica che esistano grandi spazi incontaminati da preservare, sul modello statunitense, a uso e consumo di chi li esplora per la prima volta. Questo concetto di “natura originaria”, nota Iovino nel libro Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2008) è criticato da decenni da filosofi e storici come “un’invenzione”, ma è ancora utilizzato.

L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche (provvisoriamente) lontano dall’estremismo. Può sembrare addirittura ragionevole, persino in contesti democratici. Se l’ambiente che ci sostiene è in pericolo, se siamo in un’emergenza ecologica, non dovremmo essere disposti a soluzioni imposte dall’alto, purché radicali? Armiero mi fa l’esempio della casa che va a fuoco: chiamiamo subito i vigili del fuoco, non facciamo un’assemblea di quartiere. Nel caso dell’ambiente, però, questo decisionismo può diventare pernicioso, perché tende a ignorare, o sopprimere, le lotte sociali a esso collegate.

L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche, provvisoriamente, lontano dall’estremismo; può sembrare addirittura ragionevole.

8Un possibile esempio di ecoautoritarismo viene allora dall’India, dove il governo ha lanciato un ambizioso programma di ripristino ecologico dei fiumi, che spesso accolgono i liquami prodotti nelle baraccopoli che sorgono sulle loro rive. Si tratta di un grave problema (senza contare il rischio delle piene) che il governo ha deciso di risolvere in maniera muscolare, semplicemente obbligando le persone a sparire da lì, distruggendo le loro abitazioni.

Durante la conversazione Marco Armiero mi ricorda l’esempio di Chico Mendes, sindacalista e ambientalista brasiliano il cui pensiero è spesso riassunto con la massima “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”. La lotta di Chico Mendes per preservare la foresta Amazzonica andò di pari passo con quella per i diritti dei lavoratori che da quella foresta dipendevano. Lo stesso Mendes era infatti un seringueiro, cioè un raccoglitore di caucciù. Come molti, aveva cominciato a lavorare da bambino e l’istruzione gli era stata negata dagli stessi che lo impiegavano. Ormai adulto imparò a leggere e cominciò la sua attività di sindacalista. Col declino dei prezzi della gomma, infatti, la foresta cominciò a essere bruciata e tagliata e la battaglia dei seringueiros per proteggerla si intrecciò con quella del movimento ambientalista. Mendes introdusse il concetto di riserva estrattiva, cioè aree naturali protette, di proprietà pubblica, ma che non escludono lo sfruttamento economico da parte delle persone, a partire dagli indigeni che ci vivevano dentro. Oggi la parola sostenibilità è abusata, usata come vuota parola d’ordine, ma negli anni Ottanta Mendes aveva davvero capito il suo significato. Era infatti convinto della necessità di diversificare i prodotti estraibili dalla foresta, perché valorizzare una sola risorsa (il legno, per esempio) esponeva ambiente e lavoratori a rischi maggiori. Fu assassinato nel 1988, a 44 anni, dal proprietario terriero Darly Alves da Silva e da suo figlio Darci, che materialmente premette il grilletto.