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Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”.

Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura: “Delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo a invasi e laghetti”. Il Centro italiano per la riqualificazione fluviale: “L’obiettivo deve essere la ricarica controllata della falda”. Il nodo delle perdite della rete idrica, dei consumi domestici e quello dell’agricoltura.

“Crisi climatica e siccità non guardano in faccia a nessuno, neanche alla crisi del governo”. Nonostante piogge e previsioni di piogge, il problema resta. Di queste ore, ad esempio, l’allarme sulle acque sotterranee in Emilia Romagna, mai così in sofferenza. E gli incendi non fanno che peggiorare una situazione già sull’orlo del collasso. E così nove associazioni propongono sette interventi chiave, tra cui l’adozione per ogni bacino di protocolli di gestione delle siccità e strategie di riduzione dei consumi idrici e di trasformazione del sistema agroalimentare. Agli inizi di luglio, invece, un Piano invasi e laghetti è stato lanciato da Coldiretti e Anbi (Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue), che aveva chiesto una cabina di regia e un commissario per gestire l’emergenza siccità. Certo, la crisi di governo non ha aiutato. Un piano che divide. Gli invasi? “Nuovi invasi non sono la risposta. Nessuna opposizione ‘ideologica’, ma sono una soluzione che ha molte controindicazioni”. Ne sono convinti Cipra Italia, Club Alpino Italiano, Federazione Nazionale Pro Natura, Free Rivers Italia, Legambiente, Lipu, Mountain Wilderness, Wwf Italia e Cirf (Centro italiano per la riqualificazione fluviale), che aveva già mostrato delle perplessità su soluzioni basate sulla costruzione di nuovi invasi. Una posizione contraria “a nuove dighe lungo i corsi d’acqua naturali”, più possibilista “rispetto a un limitato numero di piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, per quanto non siano esenti da criticità. È prudente, a riguardo, anche Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr: “Credo che la questione vada affrontata con la massima attenzione ai delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo ad invasi e laghetti” spiega a ilfattoquotidiano.it.

Il piano invasi e laghetti – Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura. Sono 223 i progetti definitivi ed esecutivi, cioè immediatamente cantierabili e l’investimento previsto per questa prima tranche del Piano Laghetti ammonta a oltre 3 miliardi di euro. La realizzazione di questi oltre duecento laghetti comporterebbe un aumento “di quasi 435mila ettari nelle superfici irrigabili in tutta Italia”. Secondo le stime, i nuovi bacini incrementerebbero “di oltre il 60% l’attuale capacità complessiva dei 114 serbatoi esistenti e pari a poco più di un miliardo di metri cubi, contribuendo ad aumentare, in maniera significativa, la percentuale dell’11% di quantità di pioggia attualmente trattenuta al suolo”. Il maggior numero di progetti già pronti interessa l’Emilia Romagna (40), seguita da Toscana e Veneto. Al Sud, il maggior numero di progetti riguarda la Calabria. Ma c’è un altro obiettivo strategico, ossia quello dell’autosufficienza energetica. Per questo scopo, calcolano Anbi e Coldiretti, dovranno essere realizzati 337 impianti fotovoltaici galleggianti (potranno occupare fino al 30% della superficie lacustre) e 76 impianti idroelettrici, capaci di produrre complessivamente oltre 7 milioni di megawattora all’anno. D’altronde, ricorda il presidente Coldiretti, Ettore Prandini, “l’Italia è al terz’ultimo posto in Europa per investimenti nel settore idrico. Un piano di laghetti diffusi e con funzioni anche ambientali è la soluzione all’impossibilità di realizzare grandi invasi”. Un limite si cui, a ilfattoquotidiano.it aveva già parlato anche Maurizio Righettidocente di Costruzioni idroelettriche presso l’Università di Bolzano: “Quando si parla di siccità, bisogna però fare i conti con le peculiarità dei territori e, caso per caso, valutare fabbisogni e ipotesi invasi”.

La posizione del Centro per la riqualificazione fluviale – Anche i piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, però, per il Cirf “non devono infatti diventare ulteriore causa diffusa di consumo di suolo e di alterazione delle portate dei corpi idrici, come sta accadendo con gli invasi per l’innevamento artificiale, altro esempio di approccio insostenibile nell’uso dell’acqua nel contesto del cambiamento climatico”. Il Cirf ricorda proprio le stime di Anbi (“In Italia ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, pari al 54% dei consumi totali”) e ritiene, dunque, prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare “in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della PAC (PSP)” bocciato dalla Commissione Europea “proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale”.

Puntare sulle falde – Per il Cirf “il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una. I serbatoi artificiali – aggiunge – sono sostanzialmente interventi monofunzionali, la multifunzionalità tanto sbandierata è solo una chimera, come mostra la realtà degli invasi esistenti, perché i diversi obiettivi a cui possono teoricamente contribuire sono tra loro conflittuali e nella pratica si possono raggiungere solo molto parzialmente”. La ricarica controllata della falda, invece, determina un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio: “Falde più alte sono di sostegno a numerosi indispensabili habitat, si previene la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda, oltre al fatto che falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra e contrastano l’intrusione del cuneo salino”. E, di fatto, tra le azioni indicate dalle nove associazioni nell’appello al Governo, ce ne sono un paio che hanno come obiettivo proprio quello di ripristinare le falde. Si chiede, infatti, di destinare almeno 2 miliardi di euro l’anno per un periodo di 10 anni “a interventi di riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua e del reticolo idraulico minuto e di ricarica della falda previsti dai Piani di gestione e Piani di tutela delle acque”. Ma anche di “recepire le misure previste dalle strategie per la “Biodiversità 2030” e “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal dell’Ue e riprese dalla recente proposta normativa “il Pacchetto Natura” presentata lo scorso 22 giugno dalla Commissione Europea.

Le altre soluzioni, perdite idriche e politica dei consumi – Tra le altre azioni, l’istituzione di protocolli di raccolta dati e modelli previsionali che permettano di rendere disponibile ai cittadini stime affidabili delle disponibilità di risorse idriche, dei consumi reali e della domanda potenziale e l’adozione per ogni bacino dei protocolli di gestione delle siccità. L’altra richiesta è quella di individuare “gli eventuali ostacoli e i meccanismi di reperimento delle risorse finanziarie che permettano di accelerare il percorso” per portare le perdite delle reti civili al di sotto del 25% (per le perdite percentuali). Nel 2018 le perdite nelle reti idriche potabili sono state pari al 42%, in aumento di 10 punti rispetto al decennio precedente. Il Pnrr prevede di investire entro il 2026 appena 900 milioni di euro, quando l’Ocse nel 2013 stimava che dovremmo spendere 2,2 miliardi euro l’anno per i prossimi 30 anni per far fronte alle necessità del Paese e per metterci in pari con il resto d’Europa. Le associazioni chiedono anche di definire, di concerto con l’Anci, una strategia che promuova la riduzione dei consumi idrici domestici e il ricorso ad acque non potabili (acque di pioggia accumulate o acque grigie depurate) per gli usi compatibili (risciacquo dei WC, lavatrice, lavaggi esterni) in modo da portare il valore medio dei consumi civili di acqua potabile a non oltre i 150 litri abitante giorno.

Il nodo agricoltura – Discorso a parte merita l’agricoltura. Come spiega Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr “anche in agricoltura è necessario ridurre sensibilmente le perdite delle reti irrigue e favorire il riuso di acque reflue depurate. Ma non solo. La necessità di favorire la diffusione di colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e di contenere i consumi irrigui “entro la soglia dei 2500 metri cubi di ettaro all’anno” suggerisce il Cirf, va di pari passo con il bisogno di adottare misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei suoli agrari e della loro capacità di trattenere l’acqua. “Non possiamo continuare a deteriorare habitat, ma è necessario rendere l’agricoltura più sostenibile. È possibile – spiega Uricchio – agire sulle pratiche agronomiche, sull’incremento della sostanza organica ed in generale sull’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli”. Secondo l’Ispra, infatti, il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione “che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua” spiega il Cirf, ricordando che “secondo dati del 2008, in Italia l’80% dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di CO minore dell’1%”. Questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva.

 

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