Una di noi è penetrato con difficoltà, almeno pari alla lucidità, per non dire al coraggio, e quindi alla paura e all’amore che la rinfocola, quasi la paura ne fosse la carnagione – una di noi è penetrato in territori estremi, dove la mortevita è vitamorte, laddove l’ossigeno sembrerebbe troppo puro e saturante, cosicché a quelle latitudini il respiro si fa quasi impossibile. Come avremmo desiderato essere innervati in polmoni più capaci!, o comunque di fattezze altre, per riuscire a innescare il fiato più ampio, per corroborarci all’aria ultrafina, che rende le nostre
bisacce più macre e inadatte alle lontananze dei cosmi, in cui avremmo in animo di adattarci. . Terre di gas nobilissimi e impossibili, crotti nei massicci asperrimi. Climi estremi in radure estreme. Asperità geometriche, come quarzi scuri, barbagli di un sole che fatica a penetrare e risplendere, così come fatica a penetrare e risplendere chi di noi è giunto là, dove lo spazio della mortevita e della vitamorte barbaglia e inghiotte. Pare un fuoco freddo e fatuo ciò che ci prende, noi grigie stole nella corona gelida dei territori mutili di tutto, privi di bandiera, poiché nessuno Stato ha qui reclamato la proprietà di lande e monti, di abissi. La Scizia del respiro. Dietro quelle altissime alture squadrate e quei crepacci e orridi non si pensa cosa c’è, lo si conosce soltanto. Ogni Prometeo incatenato, sarà costretto a scatenarsi, prima o poi.
L’altra di noi, spaventato e riottoso, ha provato l’impresa, ma le forze lo hanno abbandonato. Crede di avere esplorato quei territori, sorvolandoli con le ali del pensiero, parole sibilline gli sono state sussurrate all’orecchio e le mastica e le rimastica negli anni e negli annali, prima di intraprendere il percorso diaccio, la formula delle decreazioni lo atterrisce e la esalta. Tutto è incerto: significa forse che non c’è controllo? Urla, scalpita, punta i talloni, non va dove è andato l’altro, ama
forse non trascorrere verso il clima geometrico e duro dall’aria tepida in cui è stato finora e che ha il
calore della guancia e dalla primavera che arrugginisce.
Il cambiamento climatico.
L’una di noi, penetrato in quelle terre di follia, torna indietro a riprendere l’altra di noi. Così fanno i compagni di viaggio. Sono fratelli e sorelle, sono padri e madri, sono figlie e figli e tutto ciò assieme, sconvolta ogni forma, esclusa la confusione, che regna sovrana.
La confusione è sovrana.
Ricongiuntisi, l’una di noi e l’una di noi annottano in una tenda, male in arnese, attorno al fornello chimico che un minimo di calore garantisce loro, di stare su una porziuncola di terra, di bere un poco di acqua scaldata al fuocherello, di inspirare l’aria non raddensata dal gelo finale.
Discutono della morte, della vita, della morte della morte, della vita della vita.
Discordano. S’agitano. Tentano ipotesi, le vedono sbricolarsi come cartigli egizi, lacerti di cartapecora vergati dal popolo emblematico, che ha elaborato per sempre e per mai il proprio universale libro dei morti.
Si accapigliano, sembrano divorarsi l’un l’altra. Il crepitio delle loro parole incrina l’atmosfera? No.
Perché, come se fossero vivi, vestiamo i morti?
Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi. .
Ma l’una di noi e l’una di noi confliggono, non credono all’altro e credono a se stessi.
Questa è la filìa. E’ stare attenti, nella confusione che genera l’accordo e il disaccordo, forme generali che si partoriscono da sé nella filìa. Essere amici della sapienza è anzitutto essere amici. Così come la vita della vita, che è la morte della morte, si illustra nelle forme della vita e negli esiti della morte, anche la filìa, che è sapienza della sapienza e ignoranza dell’ignoranza, si definisce, transitoria e priva di supplica, nelle forme dell’accordo e del disaccordo.
Siamo in disaccordo nella filìa.
Un attimo stiamo parlando.
Della morte diremo, della morte della morte, forse, qualche sillaba in più.
Stiamo, stanno, estendendo il loro Gnomologio Tanatologico.
Sono sentenze oscure, sbagliate, sballate, balbettano, sono barbare.
Qualche sentenza, smozzicata dal viverla, la sentenza, arriverà.
Non c’è discorso sul cosmo che non contempli la fine del cosmo. Loro sono a quel punto, loro che
siamo noi.
Abbiamo detto qualcosa. Abbiamo detto il qualcosa.