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Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.
In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili e ad atroci agonie.
Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.
La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.
Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia – se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.

Lo Stato della morte

Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.
Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura– suicidio o eroismo.
Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.
Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.
In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.
Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una
battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.
La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.
Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.
Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.
L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?
La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata, è sempre un abominio.
Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.

Ma: esiste la buona morte?
La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.
Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.

1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.
2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a comminarla è lo stesso Stato.
3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?
4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?
5) Quale libertà vale più di altre libertà?