Leghissa: il filosofo dell’empatia.

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Giovanni Leghissa, professore associato di Filosofia all’Università di Torino, è direttore della rivista online di filosofia “Philosophy Kitchen”. Ha pubblicato, tra l’altro: “Per la critica della ragione europea”. Gli abbiamo chiesto un commento sull’horror show delle bare dei bambini israeliani uccisi a Gaza.

Questa cerimonia, macabra ed estraniante, distopica, di cosa ci parla?
«Israele è un paese sotto costante minaccia esistenziale, che vive per difendersi. Qui abbiamo assistito a una macabra propaganda che non è estranea all’atto bellico, all’opera del terrorismo. Ne è parte integrante. Lo troviamo in Sun Tzu, in von Clausewitz, anche in Tucidide nella sua Guerra del Peloponneso. Hamas sta conducendo la sua campagna mediatica, si rivolge a milioni di arabi, innalzando una barriera di odio che poi è difficile da buttare giù».

L’estetica della morte però va oltre. Il confine tra umano e disumano non esiste più…
«Comincia a Ninive, nell’impero assiro. Se lei guarda i bassorilievi della capitale assira trova le scene di tortura dei nemici: c’è un’estetica della violenza che sfocia nel sadismo. Ci si compiace di essere cattivi, spietati e dunque vincenti. Un messaggio perverso, per noi, ma non per tutti»

A trovarsi sempre più spesso immersi in questo orrore, non si sposta l’asticella del disumano più in là?
«La cifra della guerra e ancor più quella del terrorismo islamico è il cinismo, non c’è giusto o sbagliato che tenga. E poi consideriamo che noi esseri umani, tutti, abbiamo una sfera empatica di corto raggio. Ci diciamo dispiaciuti per tante cose ma la realtà è che stiamo male, molto male, soltanto se le cose riguardano uno stretto famigliare, un congiunto. La sofferenza del mondo non la consideriamo affatto. O meglio, non riusciamo a considerarla come sofferenza vera».

Ci fa un esempio?
«È in corso in questo momento un genocidio vero, in Sudan. E un altro massacro in Birmania. Non ne sappiamo niente, nessuno ne parla. Perché la verità è che non ce ne importa davvero niente. E questo è un dramma».

Si è ampliata la nostra conoscenza potenziale dei fatti e dei fenomeni, ma non per questo si è ampliata la nostra empatia.
«Direi proprio di no, se non in senso inversamente proporzionale. Nei telefoni con i quali viviamo c’è il coltan, raccolto perlopiù da bambini nelle miniere del Congo. Che spesso, lavorando in condizioni impossibili, ci muoiono. Noi lo sappiamo ma fingiamo di non saperlo: corriamo a comprare l’ultimo cellulare e teniamo ben riparata l’empatia».

Che invece sembra tutta concentrata su Israele, sul cattivo Netanyahu…
«Quella non è certo empatia. È antisemitismo. L’attacco del 7 ottobre ha scatenato la reazione dell’antisemitismo globale, come si è visto anche nelle università. L’antisionismo è la maschera dell’antisemitismo che è diventato la cifra comune di tutte le contestazioni che vogliono convogliare la rabbia, e dunque hanno bisogno di creare un nemico odioso, un target».

La verità esiste ancora, nell’epoca della post-truth?
«La verità esiste. La scommessa delle liberaldemocrazie, dall’illuminismo in avanti, è quella di poter formare un’opinione pubblica in grado di dare giudizi critici motivati. Esiste ancora di più oggi, con la rete: ciascuno ha in mano la possibilità di confrontare le notizie».

Oggi abbiamo a che fare con Donald Trump. Buon propagandista, gran destabilizzatore. L’epoca del trumpismo renderà tutti più cinici?
«Trump le spara grosse per poi trattare. L’America si prepara a un’exit strategy dall’Europa, questa è la verità, credo che gli Stati Uniti vogliano cambiare il modo di gestire l’egemonia americana nel mondo. Il discorso di JD Vance è stato chiaro, non credo ci debba indurre al cinismo ma a una nuova responsabilizzazione: se gli europei non fanno niente per contare è colpa degli europei, non degli americani. Noi dovremmo andare finalmente verso gli Stati Uniti d’Europa, fare di necessità virtù e lavorare all’unità politica. Da soli i paesi europei non contano niente».

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