Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte.
Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.
Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.
Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.
In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema di definire il sostantivo.
Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.
Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.
Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.
Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.
Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.
Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.
Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.
Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.
Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:
Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.
Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.
L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.
Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.
Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.
Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.
L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.
Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.
Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire.